Indie Night – Holden Start: Gabriel García Márquez

È tutto vero: dopo il Circolo dei lettori, le Indie Night(s) approdano alla Scuola Holden. Le serate pensate per raccontare i libri e gli scrittori in modo diverso – con musica, spezzoni di film e interviste, brani musicali live e mappe visuali – hanno al centro grandi scrittori del Novecento*.

Venerdì 27 ottobre ore 21 è la volta dell’amatissimo Gabo, al secolo Gabriel García Márquez. La voce narrante è quella di Davide Ferraris, partecipano con dei contributi inediti Monica R. Bedana, Peppe Fiore e Martino Gozzi. In attesa di essere teletrasportati a Macondo – grazie a luci colorate, contenuti video e musica colombiana – ecco una struggente e bellissima lettura di Nicola H. Cosentino sul capolavoro di Gabo, il romanzo che l’ha reso celebre in tutto il mondo: Cent’anni di solitudine.

Semplicemente il più grande romanzo mai scritto. Il solo, vero miracolo (e la più cocente umiliazione, per chi è venuto dopo) della letteratura contemporanea. Un universo fuggito dalle griglie della ricordanza del Gabriel ragazzo, il reale deformato nei racconti delle nonne, delle mura bianche, delle strade petrose. Cent’anni di solitudine, che significa tutto e significa niente, è stato la vera rivoluzione della fine dei Sessanta, appiccata da un giornalista colombiano iper-romantico e vagamente ossessivo. Che, come tutti gli scrittori divenuti leggenda, voleva fare un altro mestiere: il regista per il cinema, di taglio sperimentale. Il García Márquez segreto risiede ancora negli spezzoni isterici di La langosta azul, un suo cortometraggio del 1954, istantanee sovrapposte di tutto quello che, più avanti, avrebbe fatto risaltare come bene prezioso. Il resto – che guada i capelli infiniti di Sierva María de Todos los Ángeles, il sesso esausto di Eréndira e la lusinga sepolata di Fermina Daza – è racchiuso o meglio liberato nel romanzo che più di qualsiasi altro somiglia alla totalità delle cose che ci sono state raccontate.

La storia di Macondo ha la spinta dello sguardo che rivolgiamo, curioso, verso l’ombra che ci precede sul marciapiede, o nella parte opposta del matrimoniale, protetto dalla notte; è l’occhio primitivo e commosso verso le stanze di là, quelle delle madri e dei figli inconsapevoli di essere e dare storia, di evocare poesia come evocano amore.

Inizia con un’analessi che sembra una prolessi, o forse il contrario, la natura della retorica non conta: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». In questa frase esiste un terzo tempo, rispetto a quello del Plotone ed a quello del Ghiaccio, ovvero il tempo immanente che li avvolge entrambi in un unico istante, che è il tempo della storia, in cui si srotolano cinquanta esistenze come fossero una, perdendosi e incontrandosi anche da estinte, destinate a capire che i cicli non esistono ma esistono le vite, e tutte si affastellano in un unicum sempre identico e circolare. Per questo l’ultimo Aureliano ci sembra, senza grandi differenze, il primo. Per questo il più bel personaggio letterario di sempre – insieme a Ulisse e Don Chisciotte, e come loro – è un tizio che non conosciamo fino in fondo: è uno, nessuno o ventidue? Aureliano – non a caso – Babilonia. Il protagonista che ne incarna decine, lo sventurato eroe (tutto solo) dell’addizione.

Perché l’addizione è quello che saremo sempre, ci dice questo romanzo. Un aggiungersi di aneddoti e generazioni, di ribosomi e tratti somatici, di racconti tramandati, distorti, istoriati di morali destinate ai figli. Come vivessimo in eterno nell’istante gemmato della prima infanzia in cui ascoltiamo le storie di un nonno, e ci fermassimo ad allora: dentro il noi-nipote, sì, ma già padri e già nonni, quegli stessi nonni: siamo già loro mentre stanno raccontando, ma non lo sappiamo; non lo capiamo.

Poco chiaro, forse. Come sarebbe poco chiaro, secondo molti, Cent’anni di solitudine. Ma ovvio, dico io, dietro c’è la creazione. La creazione delle cose che sappiamo, certo, vite e sangue e sesso e personaggi perfetti, ma soprattutto di un tempo. Un tempo difficile da spiegare, impossibile da misurare ma splendido da immaginare. Con esso, Gabriel García Márquez ci ha suggerito qualcosa che, se la letteratura valesse quanto la rabbia o la religione, polverizzerebbe le ideologie e i testi sacri: la vita è già completa mentre la viviamo. È già totale negli istanti. Lo scopriamo alla fine, forse tardi, come i ventidue Aureliani racchiusi in uno solo, mentre l’ultimo della stirpe «se lo stanno mangiando le formiche». Ma non fa niente, nulla è perso, nel tempo istantaneo e circolare, disperante e consolatorio che lui ha inventato. Nemmeno la vita, appunto. Alla cui comprensione dedichiamo gran parte dell’altro tempo, quello normale, quello percepito, che forse serve proprio a questo: imparare ad amare l’esistenza. Chi lo sa. L’unica cosa certa – in questo presente mediocre senza Gabo, che tutti fanno bene ad amare, che tutti fanno bene a odiare – è che parole così belle non ne leggeremo più.

*MA COSA SONO QUESTE INDIE NIGHT(S)?

Indie Night(s) è un progetto di Davide Ferraris, Sara Lanfranco e Francesca Marson. Per parlare di libri con chi i libri li ama, li legge e li fa.

 

Illustrazioni di Luisa Rivera

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