L’amore ai tempi dei calamari. Intervista a Fabio Genovesi

«Una delle mie passioni sono i calamari giganti. Per anni si pensava che non esistessero. E invece esistono eccome. Vivono negli abissi più profondi dove combattono per la sopravvivenza con i loro acerrimi nemici, i capidogli. E quando qualcosa mi crea ansia – un treno in ritardo, un problema che credo di non poter risolvere – penso a un calamaro gigante che smette di lottare e mi fissa. Mi sento incredibilmente piccolo, i miei problemi diventano all’istante minuscoli. E così mi rilasso».

In una saletta dell’agenzia Punto & Zeta, Fabio Genovesi racconta a un gruppo di blogger e giornalisti il suo ultimo romanzo Il mare dove non si tocca (Mondadori, pp. 324, 19 euro), la storia di Fabio Mancini: sei anni, due genitori e una decina di nonni. Unico bimbo del numeroso clan Manicini, il piccolo Fabio viene conteso tra tutti gli zii – i fratelli del vero nonno – con cui vivrà decine di avventure bizzarre. Tanto che, una volta iniziata la scuola, capirà che non tutti hanno dieci nonni e che esistono anche coetanei con cui divertirsi sfidandosi a giochi sconosciuti e misteriosi come moscacieca o rubabandiera. E sarà proprio quando una tragedia sconvolgerà il mondo dei Mancini che Fabio capirà che ciò che ci rende più forti sono le persone che ci vogliono bene.

«Del resto», aggiunge sorridendo Genovesi, «siamo tutti strani. Abbiamo solo due possibilità nella vita: essere strani e infelici – preoccupandoci di ciò che pensano gli altri – o, al contrario, scegliere di far brillare ciò che ci rende unici potendo così essere strani e felici».

Non c’è niente da fare. Quando si tratta di costruire dei personaggi, riesci sempre a sorprendermi. Gli zii di Il mare dove non si tocca sono semplicemente fantastici. 

Devo fare una premessa: questa volta è stato relativamente facile perché Il mare dove non si tocca in realtà è la storia della mia vita. Negli anni mi è capitato di raccontare di me bambino ad alcuni colleghi. La classica domanda era: «Ma se hai davvero avuto un’infanzia simile perché non l’hai mai scritta?» E siccome chi scrive è un ladro e ruba spesso le storie degli altri, a un certo punto ho smesso di raccontarla e l’ho scritta prima che lo facesse qualcun altro. I miei zii erano quelli descritti nel romanzo, anche se, ovviamente, ho cambiato alcuni dettagli. Come il mio protagonista anch’io fino alla prima elementare ho passato la vita con loro: niente asilo, nessun coetaneo. Pensavo che i bambini che vedevo in giro fossero tutti come me, che avessero nonni e zii che li portassero a fare cose come pescare o andare a caccia. Arrivare in prima elementare è stato un vero e proprio shock: non sapevo interagire con i miei coetanei e tuttora, lo ammetto, ho qualche problema. Anche se credo di essere migliorato.

Devo fare una premessa: questa volta è stato relativamente facile perché Il mare dove non si tocca in realtà è la storia della mia vita. Negli anni mi è capitato di raccontare di me bambino ad alcuni colleghi. La classica domanda era: «Ma sei hai davvero avuto un’infanzia simile perché non l’hai mai scritta?»

Per scrivere il romanzo, ho rovistato nel passato e mi è capitato di rileggere alcuni temi delle elementari. Mi sono reso conto che, a sette anni, ragionavo come un ottantenne: i miei quaderni erano pieni di frasi come «ah, ai miei tempi» oppure «i giovani d’oggi». La mia famiglia era strana, sì. Ma non era poi tanto diversa dalle altre. Ognuno di noi ha avuto esperienze simili, colme di amore non detto, con persone come i miei zii le cui bocche erano fatte per bestemmiare più che per dire «ti voglio bene», ma che trovavano comunque il modo per comunicarlo. Quando, ad esempio, mio zio Aldo mi telefonava dicendo di non andare a trovarlo era il suo modo per chiedermi di passare la serata insieme. Io, puntualmente, mi presentavo a casa sua alle sette con due pizze.

Fabio Mancini è, in qualche modo, anche un po’ Fabio Genovesi. Come sei riuscito a trovare la sua voce di bambino? 

La mia prima preoccupazione è che fosse una voce credibile. Finora avevo scritto romanzi polifonici, dove parlavano persone di tutte le età – dal ragazzino all’ottantenne. Questa storia, per come me la immaginavo, potevo scriverla solo dal punto di vista del protagonista, dai sei ai dodici anni. Mi dà molto fastidio leggere un libro in cui c’è un bambino con la barba e i capelli bianchi, che si esprime come l’autore. Il segreto è rinunciare del tutto alla boria, dimenticandoti dei critici letterari e quindi scartando ogni intellettualismo. Il linguaggio dev’essere il più semplice possibile: non facile, semplice. Sono stato tantissimo con i miei nipoti e mi sono reso conto che sottovalutiamo i bambini: spesso li crediamo più stupidi di quello che sono. Hanno dei pensieri profondi, anche se non li formulano in quello che per noi adulti è il linguaggio della profondità.

Non m’importa se qualcuno legge il libro e pensa che io non sappia coniugare i congiuntivi. Preferisco di gran lunga sentirmi dire una frase simile piuttosto che accorgermi che la voce del ragazzino non è credibile.

Se un mio libro è di trecento pagine, in realtà, parte da una prima stesura di almeno ottocento. Ma sono pagine che servono solo a me, per costruire i personaggi, trovare le voci e le situazioni. Mi racconto ad esempio la prima comunione di un personaggio o di sua madre, anche se so che poi nel libro non ci sarà. Il romanzo vero può iniziare magari dopo che ho scritto cinquecento o seicento pagine. La prova del nove è poi rileggermi tutto il libro ad alta voce e togliere ogni passaggio che risulti artefatto o spigoloso. Cerco di fare un lavoro lungo perché il romanzo sembri scritto in una volta sola. C’è una frase che sento estremamente mia, e che è stata attribuita a molti autori: «Scusa se ti ho mandato una lettera molto lunga ma non avevo abbastanza tempo per scrivertene una breve». Credo che sia bellissima: più lavori a una pagina e più diventa semplice.

Traspare un grande rispetto verso i lettori.

Il romanzo per me è una casa dove scrittore e lettore convivono, ed entrambi devono arredare la storia. Se il lettore si ritrova immerso nella storia fin dal principio credo che dipenda, appunto, dalle centinaia di pagine che ho scritto prima, che conosco solo io ma che, in qualche modo, mi sono servite a costruire un mondo. A volte, quando leggo i manoscritti di qualche esordiente – anche se non mi sento di dare consigli di scrittura – mi viene da dirgli «tu non conosci il gusto di gelato preferito del tuo personaggio!», anche se questo dettaglio, poi, alla fine nel romanzo non compare. Del tuo personaggio devi sapere tutto: cosa pensa, cosa mangia, che auto possiede o vorrebbe avere. Il lettore lo capisce se non sai tutto dei tuoi personaggi. Mi sembra più onesto: solo quando ti appassioni veramente riesci a trasmettere delle emozioni.

Il romanzo per me è una casa dove scrittore e lettore convivono, ed entrambi devono arredare la storia.

Il potere delle storie è forse il cuore pulsante del romanzo che, a sua volta, sembra svilupparsi come una gemmazione di vicende concatenate che, di foglia in fiore, vanno a formare l’intero albero.

Sono sempre stato affascinato dalle storie. Il mare dove non si tocca nasce da questo tipo di fascinazione: è un modo per amplificare le storie che vengono narrate. Ognuno ha i suoi autori preferiti: io cito spesso persone che non lo sono, ma che sono dei narratori incredibili. Gli anziani. Vivo a Forte dei Marmi dove d’inverno ci sono solo ottantenni. Mi ritrovo ad ascoltarli sempre con estremo interesse. Raccontano storie micidiali in un modo tutto loro, un po’ scombiccherato. Il narratore migliore per me è quello che divaga e ti fa innamorare del suo racconto interrompendolo per parlare di personaggi che non c’entrano nulla. Le storie funzionano quando stanno addosso ad altre storie. Ho fatto il giardiniere per tanti anni e ho scoperto che negli alberi ci sono rami che danno fiori, altri che danno frutti e altri che non danno nulla ma servono per mantenere in equilibrio la pianta. Così sono i romanzi: se c’è troppa ansia di mandare avanti la storia, o manca un’armonia tra la vicenda principale e le trame secondarie, i libri non funzionano.

Il narratore migliore per me è quello che divaga e ti fa innamorare del suo racconto interrompendolo per parlare di personaggi che non c’entrano nulla. Le storie funzionano quando stanno addosso ad altre storie.

Altro tema cardine è la stranezza. Quindi ti chiedo: cos’è per te la normalità?

Per me la normalità semplicemente non esiste. Credo sia un prodotto della matematica, che io non amo. La normalità è come il salario medio delle statistiche, che, appunto, non esiste. Tutte le persone sono in qualche modo strane, solo che alcune sono più brave a nascondere le loro bizzarie. Per me la scelta è solo tra essere strani infelici – perché ti mimetizzi – e strani felici, perché non nascondi le tue stranezze e le persone ti vogliono anche più bene. Ho una passione per i bambini atipici, quelli che fanno discorsi da adulti, che hanno manie assurde e che fanno un po’ preoccupare i genitori. Io alimento apposta le loro follie. Il figlio di un mio amico adora i fumetti ed è convinto che Tex esista. Per questo quando sono in giro per l’Italia gli spedisco delle cartoline firmandole Tex e Kit Carson. Mia madre ha sempre alimentato le mie fantasie, al punto che ho creduto a Babbo Natale fino a un’età assurda… No, non ti dico quale. Crearsi delle storie dalla vita di tutti i giorni è un ottimo modo per stare bene.

Non è più facile essere innamorati dell’assurdità del mondo anziché cercare sempre di organizzarsi?

E se i tuoi zii avessero potuto leggere Il mare dove non si tocca? Cosa avrebbero detto?

I miei zii sono morti tutti da tempo e siccome erano imprevedibili non saprei dire come l’avrebbero presa. Forse si sarebbero commossi. Non so se l’avrebbero letto, magari avrei dovuto raccontaglielo e forse sarebbero stati contenti. Forse sarebbero pure comparsi a qualche presentazione. Ne sarebbero successe di tutti i colori…

Fotografia © Leonardo Cendamo

 

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