Le tre del mattino. Intervista a Gianrico Carofiglio

Un padre e un figlio. Una città, Marsiglia. Due notti che cambieranno tutto, per sempre. Momentaneamente accantonati i personaggi storici a cui i lettori sono più affezionati – dall’avvocato Guerrieri al maresciallo Fenoglio – Gianrico Carofiglio con il suo Le tre del mattino ci racconta una storia intima e commovente.

Antonio è un ragazzo come tanti, frequenta il liceo, ma all’improvviso si scopre malato: soffre di epilessia. Per capire come affrontare la patologia, padre e figlio partono per un viaggio a Marsiglia – città conturbante e allucinata – alla ricerca del più grande specialista nel campo. Il viaggio sarà l’occasione per un confronto tra i due uomini, una riflessione struggente sulla vita.

Incontro Gianrico Carofiglio – sempre disponibile nel rispondere ed elegantissimo nei modi – insieme a un gruppo di blogger, qualche ora prima del suo reading musicale al Circolo dei lettori di Torino.

All’inizio del romanzo c’è una nota, come un avviso al lettore: «Questo libro e i suoi personaggi (uno escluso) sono frutto di finzione narrativa. La storia si ispira però a fatti realmente accaduti. Ringrazio chi me li ha raccontati». Partiamo da qui. Dalla storia vera: ci puoi dire qualcosa in più?

La vicenda nasce circa otto anni fa. Mi trovo a chiacchierare con un amico, un buon conoscente. Non mi ricordo neanche di cosa stessimo parlando quando, a un certo punto, esclama: «C’è una storia che sarebbe perfetta per un romanzo». È una cosa che ti senti dire di frequente e, nella maggior parte dei casi, è una fesseria. Spesso la gente è convinta che quello che le capita sia interessante – in realtà è interessante tutto, dipende da come lo racconti. Questo mio amico, in ogni caso, inizia a riferirmi una storia incredibile. La storia di una malattia, di un viaggio: il suo. Per curarlo lo hanno massacrato con farmaci di ogni tipo. Alla fine degli anni Sessanta queste discipline, le scienze neurologiche, non erano ovviamente sviluppate come oggi. Lui continuava a stare male. A un certo punto il padre si è messo a cercare – trovandolo – il miglior specialista al mondo, che è poi l’unico personaggio realmente esistito, Henri Gastaut. Il medico decreta che la malattia non è delle più gravi, dovrebbe guarire nel giro di qualche anno, seguendo una terapia medica che si limita a poche compresse. C’è un però. Il ragazzo dovrà tornare a Marsiglia tre anni dopo, per una prova. Un test che ora è vietato dalla deontologia medica – proprio per questo il romanzo doveva essere ambientato all’inizio degli anni Ottanta. Ecco, questo mio amico mi racconta tutta la sua storia, ma soprattutto mi racconta i due giorni e le due notti passate nella città francese. È stata una folgorazione, tanto da farmi esclamare: «Ma è incredibile! Ti secca se lo scrivo?» Come ti dicevo, questo è successo diversi anni fa. Nel frattempo ho scritto altri libri, sono successe altre cose. Alla fine dell’anno scorso ho deciso fosse arrivato il momento giusto per fissare sulla pagina questa storia.

Le tre del mattino è sì una storia sulla malattia, sul talento ma soprattutto sul legame tra un figlio e un genitore. Il rapporto tra Antonio – il protagonista – e il padre è forse la parte più bella del romanzo.

Pensa che l’idea originale si componeva del ragazzo, solo, a Marsiglia. Perché io così ricordavo la storia narrata dal mio amico. Mi immaginavo mille avventure notturne tutte compresse nell’arco di due notti. E ho anche iniziato a scrivere. Poi, dal momento che avevo bisogno di qualche chiarimento, chiamo questo mio amico. E, parlando, mi ricorda che insieme a lui c’era anche il padre. Rare volte ho un ricordo nitido di un’idea che arriva e cambia tutto, ma così è stato. E se li facessi confluire entrambi nel mio romanzo? Ora mi chiedo come sarebbe potuto essere Le tre del mattino senza il personaggio del padre.

Su tutta la storia veglia la città di Marsiglia, che – può sembrare banale da dire, ma in questo caso è molto vero – diventa un personaggio. Una figura conturbante, pericolosa e per questo molto affascinante.

Come ti dicevo, la storia vera – quella che mi è stata raccontata – è avvenuta a Marsiglia. Una città perfetta per una vicenda di questo tipo. Ha una potenza narrativa intrinseca, una contraddizione palpabile e bellissima. Ci ero stato nel 2010, ospite di una residenza per scrittori. Potevo stare lì per un mese e scrivere liberamente. Alla fine non dovevo necessariamente produrre un testo per loro. Non avevo scritto nulla per molti anni, ma l’immagine di Marsiglia – delle sue strade di notte – mi ha lavorato dentro per tutto questo tempo. Sono tornato a visitare la città mentre stavo scrivendo il romanzo. Ma Marsiglia è quella, è proprio quella che trovate descritta nelle pagine di Le tre del mattino. Un luogo che, più di altri, è una metafora. Un posto che fa paura ancora adesso (immaginatevi negli anni Ottanta).  Ci sono zone in cui pensi di essere stato trasportato a Tangeri o a Il Cairo, delle vie vicino al porto che da sole possono ispirarti intere storie e romanzi. Ed è qualcosa che ti colpisce molto perché sei al centro di una città europea in ogni suo aspetto – pensiamo all’architettura – e contemporaneamente ciò che vedi amplifica una sensazione di straniamento che ti fa credere di essere in una città del Nordafrica, o a Genova o a Napoli. Qui il senso di pericolo che stavo cercando per la mia storia lo puoi toccare con mano.

È vero: nella narrazione è come se il lettore avvertisse sempre un costante senso di pericolo anche se, di fatto, il tuo è un libro in cui racconti la vita.

L’essenza della scrittura, a parte il talento con le parole, è la capacità di vedere il mondo attraverso occhi che non sono tuoi. La capacità di mettersi nelle scarpe degli altri, come dicono gli inglesi. Se ti poni dal punto di vista dell’altro e guardi il mondo da una prospettiva diversa, il resto viene naturalmente. Non devi progettarlo, non devi pensarlo. Raccontare, in fin dei conti, significa essere qualcun altro. Se uno sa troppo bene all’inizio cosa succederà, chi sono i personaggi e quali le sfaccettature, c’è poco da sviscerare. La vita nasce dal fatto che scrivendo cerchi di capire chi sono i personaggi e che cosa significa la storia. In tutte le storie però, proprio come dice Carver, bisogna avvertire un senso di minaccia. Ed è questo che si avverte (soprattutto) verso il finale. La chiave di lettura di Le tre del mattino – e in generale di tutti i miei romanzi – sta nel leggere l’ultima frase e poi rileggere la prima, quella che apre il testo.

In tutti i tuoi libri la musica è più che presente: in questo caso c’è il jazz. Sei un appassionato?

Il jazz mi piace. Uno degli effetti collaterali del romanzo è che ne sto ascoltando molto di più di quanto non facessi prima. Costruendo il personaggio del padre ho pensato anche al mio, di padre. Mio padre suonava. E questo è stato il motore verso tutto il resto, verso il jazz come metafora della vita. L’imperfezione e l’incompiutezza come bellezza è una chiave di lettura dell’esistenza, ma anche della letteratura. Ho ascoltato moltissimi jazzisti, ho visitato innumerevoli jazz club scoprendo un mondo – dal jazz club di Manhattan verso Harlem, a quello di Roma di via Gregoriana, dove ho rubato alcune scene, passando per Copenaghen. L’osservazione dei luoghi e delle persone sono stati fondamentali per riprodurre sulla pagina i movimenti dei musicisti, la ritualità delle jam session. 

Questo tuo nuovo libro arriva a un solo anno di distanza dal precedente, L’estate fredda. È stato un anno pieno di incontri con i lettori, di partecipazioni ai festival letterari. Mi chiedo quindi: che tipo di scrittore sei? Suppongo tu non appartenga a quella categoria di autori che ha dei riti fissi, visto gli impegni che hai…

Infatti non ho riti fissi, non sono capace. Ho una serie di gesti che nella mia scrittura ritornano ma senza un ordine che io possa decifrare o quantomeno che io sia in grado di decifrare. Se dovessi individuare un modello nella mia routine di scrittore sarebbe il seguente: ipotizziamo che io abbia un romanzo da consegnare tra dieci mesi, potrei anche iniziare oggi stesso. Ogni volta mi prometto con molta serietà di scrivere quattro ore al giorno, cinque pagine, in modo da avere tutto sotto controllo nel tempo datomi, non arrivando con l’affanno alla fine. Ecco, questo non l’ho mai fatto. Succede che trovo degli escamotage creativi per non scrivere nulla per molti mesi, o quasi. In realtà prendo moltissimi appunti, confusi, su qualsiasi cosa abbia tra le mani e poi li ritrascrivo, in un secondo momento, al computer. Pagine sparse, un capitolo qua e un capitolo là. Quando mi avvicino alla scadenza guardo questi appunti confusi e penso, tra me e me, che sarà impossibile ricavarne una storia. Eppure è così: è come se ciò che scrivo in quest’ultima fase di lavoro vada a riempire i vuoti che erano presenti, cosicché tutto ruoti – proprio come in un caleidoscopio –, prendendo la forma che voglio. 

Ritorniamo all’inizio, a Le tre del mattino. In chiusura devo farti un complimento non (solo) sulla scrittura, ma anche sulla copertina.

La copertina è di mio fratello, Francesco Carofiglio: l’abbiamo lavorata insieme. Francesco ha trattato pittoricamente questa foto, ed entrambi abbiamo fatto l’editing. Non è un caso che il ragazzo stia camminando prima del padre, così come non è casuale l’insegna del jazz club e neppure la targa con la via francese in primo piano. Ogni singolo dettaglio è stato studiato insieme, ma il merito è tutto suo. E suggerisce l’esatta misura del romanzo: una storia di non detti. Proprio come la vita.

 

Forse potrebbe piacerti