Una giacca troppo stretta. Intervista a Mircea Cărtărescu

Se T. S. Eliot avesse potuto assistere al reading in lingua originale di Mircea Cărtărescu, immerso nella calura del mezzogiorno di Gavoi, avrebbe affermato con ancor più convinzione che «la vera poesia può comunicare anche prima di essere capita». Ipnotico ed estraniante, il flusso di parole pronunciate in una lingua altra, vicina eppure così lontana, ha ammaliato il pubblico del festival L’isola delle storie.

Tradotto in undici lingue, più volte in odore di Premio Nobel, incontro il poeta-scrittore alcuni giorni dopo il suo appuntamento con il pubblico. Nonostante la tenuta informale – siamo nel giardino dell’albergo, in una apparente calma postprandiale – avverto la carica magnetica che si può provare trovandosi seduti davanti a un esponente della letteratura mondiale. Con la serietà di chi possiede una fiducia inossidabile nella scrittura, iniziamo l’intervista. «Nessuna formalità, – mi ammonisce subito. – Mettiamoci al lavoro».

Forse è banale ricorrere all’immagine della poesia come forma artistica che abbatte le barriere linguistiche, ma sembra proprio quello che è successo qui in Sardegna. 

È stato inusuale tornare a leggere i miei versi, perché è da quasi un quarto di secolo che non scrivo più poesie. Sono stato un poeta, in senso letterale, in gioventù. A un certo punto ho scelto di smettere: non avrei mai più scritto poesie. Nonostante questa decisione, però, mi considero tuttora un poeta. Ed è ciò che sono sempre stato. Possiamo considerare poeta anche una persona che non ha mai scritto neanche un verso, ma che ha conservato dentro di sé un residuo d’infanzia, uno sguardo infantile, di costante stupore nei confronti del mondo. La poesia non è un genere letterario, ma una strada, una via, un modo per vivere la propria vita.

A un certo punto ho scelto di smettere: non avrei mai più scritto poesie. Nonostante questa decisione, però, mi considero tuttora un poeta. Ed è ciò che sono sempre stato. Possiamo considerare poeta anche una persona che non ha mai scritto neanche un verso, ma che ha conservato dentro di sé un residuo d’infanzia, uno sguardo infantile, di costante stupore nei confronti del mondo.

Un scelta drastica.

Avevo già scritto sette volumi di poesie, e ho pensato che non avrebbe avuto senso aggiungerne un altro. Un po’ come disfarsi di una giacca che negli anni hai usato, amato, nella quale ti sei sentito sempre a tuo agio, quasi protetto, e che d’improvviso ti accorgi essere diventata troppo stretta. Ecco, per me con la poesia è successa la stessa identica cosa. Per questo motivo ho deciso di dedicarmi ad altre espressioni artistiche, continuando a scrivere poesie sotto altre forme.

Altre forme artistiche come il romanzo. È recentemente uscito Abbacinante. L’ala destra (Voland, traduzione di Bruno Mazzoni, pp. 637, 25 euro), ultimo tassello della trilogia iniziata con Abbacinante. L’ala sinistra e proseguita con Abbacinante. Il corpo. Un’opera-viaggio, una narrazione fiume dove, in 1600 pagine complessive, Bucarest diventa il punto ideale dal quale osservare il mondo: un luogo in cui riflettere su quello che è successo e su quello che accadrà agli uomini. Da dove nasce un progetto così ambizioso?

Sono partito da due cose: il titolo – Orbitor, che in italiano significa «abbagliante», «abbacinante» – e dal numero delle pagine. Numero che ho stabilito fin da subito  dovesse aggirarsi intorno alle mille. Ma non avevo la minima idea della trama. Ho iniziato a scrivere, e non mi sono più fermato. Ho scritto ininterrottamente per quattordici anni. In nessun momento sapevo che cosa sarebbe successo, che cosa avrei scritto dopo. Non ho cancellato e non ho aggiunto nulla. È stata l’esperienza più vicina alla maternità che potessi sperimentare in prima persona.

Sì, se dovessi racchiudere in un’immagine quanto mi è successo sceglierei proprio la metafora della maternità. Una donna, quando è incinta, porta avanti la gravidanza senza pensare di continuo a come si svilupperà il feto. Al contrario vive normalmente, lasciando che sia la vita a crearsi, a formarsi da sé. Le cellule che s’aggregano come un grappolo di parole, la punteggiatura come la circolazione sanguigna: così sotto i miei occhi si sviluppavano i capitoli, come se fossero stati una mano, un piede di un neonato. E dopo il tempo necessario il bambino viene alla luce. In questo modo è nata la mia trilogia.

Una donna, quando è incinta, porta avanti la gravidanza senza pensare di continuo a come si svilupperà il feto. Al contrario vive normalmente, lasciando che sia la vita a crearsi, a formarsi da sé. Le cellule che s’aggregano come un grappolo di parole, la punteggiatura come la circolazione sanguigna: così sotto i miei occhi si sviluppavano i capitoli, come se fossero stati una mano, un piede di un neonato.

Nell’ideale carriera di uno scrittore – se mai fosse possibile definirne una – si pensa che con una trilogia di queste proporzioni si abbia raggiunto l’apice, e invece…

Invece credo di aver portato la mia scrittura al culmine delle sue potenzialità con il testo successivo, Solenoid. Un libro di mille pagine. Ho grandi speranze legate a questo libro. È già stato tradotto in cinque lingue e spero arrivi presto anche in Italia.

Il suo viaggio nella nostra penisola proseguirà a Roma, dove verrà assegnato lo Strega Europeo, premio al quale è finalista insieme ad Annie Ernaux, Kerry Hudson, Ricardo Menéndez Salmón e Ralf Rothmann. Come sta vivendo questa esperienza?

Rilassato. Sono felice di essere stato selezionato per questo premio. Anche se, parlando sinceramente, non ho grandi possibilità di vincere (n.d.r. il premio è andato a «Gli anni» di Annie Ernaux). Recentemente ho ricevuto un’altra onorificenza italiana, il Premio Von Rezzori. Sono già contento di questo. A Roma farò il turista.

Un sentito ringraziamento va alla Dottoressa Aurora Firţa che ha svolto il ruolo chiave di interprete durante l’intervista. 

Fotografia © Cosmin Bumbuţ

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