Devi stare molto karma (e guardare Russian Doll).

«Credi al destino, Francesca? E per quanto riguarda il karma, come siamo messi?»

Che l’universo mi stesse dicendo qualcosa, be’, questo mi era chiaro da un po’. Non è un caso se, ultimamente, tutte le narrazioni che mi circondano – dai libri alle serie tv – hanno a che fare con il COSMO.

Come ad esempio Benevolenza cosmica, l’esordio di Fabio Bacà. Il romanzo parte da un assunto semplice, ma efficace: cosa succederebbe nella nostra vita se tutto, ma proprio tutto, iniziasse ad andare per il verso giusto? La risposta – o meglio, le molteplici domande che vi sorgeranno durante la lettura – è racchiusa in 225 pagine di pirotecniche (dis)avventure a zonzo per Londra con Kurt O’Reilly, il direttore dell’Istituto nazionale di statistica.

O come accade in Russian Doll, la serie targata Netflix in cui Natasha Lyonne interpreta Nadia, una designer di videogames che continua a morire durante la festa per il suo trentaseiesimo compleanno: «L’universo vuole prendersi gioco di me, e io mi rifiuto di giocare». Giuro che avrei potuto dirlo io, uno di questi giorni. Ma nella serie non ci sono treni Torino–Milano e ritorno, siamo a New York: la protagonista ha un gatto, Oatmeal (quando sarò in grado di non far morire le piante di casa passerò ad un micio) e molti capelli ricci rossi (ci pensavo anche prima al rosso, i sondaggi su Instagram possono fungere da testimone).

 

 

Ebbene, sulle note di Gotta get up di Harry Nilsson (vi si appiccicherà al cervello, potete starne certi), questa dark comedy in otto puntate – un mash-up tra Black Mirror e Groundhog Day –  è narrativamente congegnata come una matrioska. Dialoghi brillanti, cinismo frizzante e un intreccio fittissimo in meno di trenta minuti a puntata. Il tutto con al centro una protagonista inaffidabile e sì, ammettiamolo, anche un po’ stronza, per cui non sempre vi ritroverete a fare il tifo. Almeno non subito. Io l’ho trovato liberatorio. E ho scoperto che, così come è stato teorizzato da Bacà, c’è sempre una persona nell’universo là fuori che ha un estremo bisogno di te. Anche se tu non lo sai. Non ancora.

Uno dei miei più cari amici è un programmatore informatico. Vive su un’isola, il nostro rapporto è fatto di lunghi messaggi vocali e di una moltitudine di messaggi di testo. «Capisci? Stavo cercando di risolvere un bug e in parte ci ero anche riuscito, finché ne ho creato uno nuovo». Ecco, è come se in Russian Doll venisse data la possibilità di risolvere un bug esistenziale per andare avanti. E per capire, una volte per tutte, qual è la fine del gioco.

 

«Mi prometti che se non mi butto sarò felice?»

«No, non posso promettertelo. Però posso prometterti che non sarai più solo».

 

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