Vicino al cuore di Clarice Lispector

È il 1922. Chaya Lispector ha solo due anni. Con la famiglia è costretta a emigrare dall’Ucraina – massacrata dai pogrom della Guerra Civile – fino al Brasile. È lì che nasce Clarice. Tra i buffi opossum e le sterminate foreste di pernambuco.

Il suo primo romanzo – Vicino al cuore selvaggio – sconvolge la critica. L’autrice ha ventitré anni, eppure vengono fatti i nomi di Virginia Woolf e James Joyce. Per quell’introspezione, quella complessità psicologica che avvolge nelle spire delle sue parole e porta il lettore giù, nei meandri più profondi – a volte lasciando interdetti, a volte togliendo il fiato. «È inutile cercare di classificarmi» si ostina a ripetere.

Poco prima di morire, nel 1977, Clarice Lispector conclude la stesura del suo ultimo testo: Un soffio di vita. Un libro da leggere ad alta voce, silenzioso, che parla. Parla piano. Un libro composto da detriti di libri. È Olga Borelli, amica e assistente della scrittrice, a consegnare ai lettori questo testamento spirituale. Di una donna che anche nel dolore – portata d’urgenza in ospedale quando il male ormai aveva preso il sopravvento – si aggrappa con tutte le sue forze al potere immaginifico delle parole. «Fate finta: stiamo andando a Parigi».

Clarice Lispector muore il 9 dicembre 1977. Nove giorni dopo la sua morte va in onda la sua ultima intervista rilasciata alla TV Cultura, emittente brasiliana. Intervistatore: «Ma lei non rinasce e si rinnova ad ogni nuovo lavoro?» La risposta di Clarice, dopo un lungo sospiro: «Ecco, io ora sono morta… Vediamo se resuscito di nuovo. Per il momento sono morta… sto parlando dalla mia tomba».

 

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